I titoli dei giornali sono tutti per lei: Silvia Romano è libera! Aisha, così sembra voglia essere chiamata dopo la conversione all’islam avvenuta durante il periodo di prigionia, per 18 mesi è passata di mano tra i gruppi terroristici di matrice islamica legati prima ad Al Qaeda, poi a al-Shabaab. Un tempo sterminato per una ragazzina di – allora – appena 23 anni che la marchigiana Africa Milele aveva spedito a fare la cooperante nel villaggio di Chakama (Kenya).
Per la verità, i titoli sono rapidamente cambiati da un giorno all’altro ovvero a mano a mano che emergevano particolari sulla nostra concittadina liberata e che da più parti: non solo i soliti politici di destra più o meno estrema e più o meno populista, non solo i classici “odiatori” siriali e leoni da tastiera, persino alcune rappresentanze dei mussulmani in Italia e la Codacons hanno iniziato a spargere parole al vetriolo sulla giovane cooperante rientrata vestita di jilbab.
Gli argomenti mossi contro Aisha Romano sono quelli della conversione all’islam e quella del riscatto.
La conversione all’islam è stata oggetto di lunghe quanto accorate discussioni. Si va dalla posizione di Simone Angelosante, consigliere regionale Abruzzo, in quota Lega, che arriva a fare un confronto con gli ebrei perseguitati durante il nazismo e conclude “È come se un ebreo si fosse convertito in un campo di concentramento dall’ebraismo al nazismo e ne fosse uscito vestito da SS”, a quella di alcuni rappresentanti dell’islam italiano che hanno parlato del rientro della giovane cooperante in abiti islamici come di una mossa mediatica di sicuro impatto a favore degli estremisti.
Ma anche la questione del riscatto pagato per la liberazione della nostra connazionale è stato oggetto di grande dibattito. La Codacons, il coordinamento a difesa del consumatore, afferma che se non c’era un reale pericolo imminente per la vita della cooperante, allora si potrebbe trattare addirittura di un reato “contabile oltre che penale” e ha per questo interpellato la Corte dei Conti perché faccia chiarezza sul riscatto; i leoni da tastiera che hanno insultato la giovane Romano non sono particolarmente né originali, né degni di nota coi loro auguri di stupro e di morte; più sorprendenti invece, le posizioni di alcuni politici solitamente ritenuti populisti, estremisti, e più in generale baluardi di tutti gli -ismi del mondo: Giorgia Meloni, a “Il tempo che fa”, si rallegra della liberazione della nostra concittadina, e sollecita – ora che l’ostaggio è al sicuro – a colpire i carcerieri. Questo, spiega, perché non passi il messaggio che è un buon affare rapire un italiano.
Partendo proprio da quest’ultima posizione, e guardando un po’ all’indietro nella nostra storia possiamo fare qualche altra riflessione:
- È sempre una buona idea pagare il riscatto per una persona rapita?
Storicamente l’Italia ha conosciuto un lungo periodo in cui i sequestri di persona a scopo di estorsione erano quasi all’ordine del giorno. Sto parlando degli anni tra il 1970 e il 1990. Un caso su tutti fu quello di Paul Getty (1973) cui i rapitori tagliarono l’orecchio destro per incoraggiare il ricco nonno a pagare il riscatto per riaverlo vivo. A quel tempo la legge in merito prevedeva che il sequestro come mezzo di realizzazione di un’estorsione (allo scopo dunque «di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione») era punito con la reclusione dagli 8 ai 15 anni. Negli anni la pena si aggravò ma non risolse il problema.
Tuttavia, i sequestri di persona a fini estorsivi finirono improvvisamente nel 1993. Il motivo era stata l’approvazione della Legge n. 82/1991 che, sostanzialmente, prevedeva il blocco dei beni del sequestrato e di tutti i suoi congiunti al fine di impedire il pagamento del riscatto.
Forse quindi pagare un riscatto non è sempre una buona idea. Forse, pagare un riscatto con troppa facilità, significa rendere gli italiani nel mondo possibili bersagli di chi vuole un facile bancomat per finanziare chissà quale bieca attività (non necessariamente terroristica, anche se è la più probabile) . - È sempre stato pagato un riscatto per un italiano rapito?
Anche in questo caso vorrei invitarvi a fare un passo indietro e ricordare Fabrizio Quattrocchi, un bodyguard italiano in servizio in Iraq alla sequela di una azienda del Nevada che lo avrebbe reclutato tramite un altro mercenario genovese.
Rapito nell’aprile 2004, l’uomo fu infine giustiziato dai combattenti di al-Qaeda e le immagini furono trasmesse in televisione dai maggiori telegiornali italiani il successivo maggio. Cosa avevano chiesto i rapitori? Il ritiro delle truppe italiane dalla missione di pace Antica Babilonia e le scuse del Governo italiano.
Naturalmente l’Italia a schiena dritta in quel caso non ritenne di salvare il suo concittadino che, però, prima di morire diede una prova di grande patriottismo. Nel video, infatti, si sente la voce orgogliosa del Quattrocchi che afferma: “Ora vi faccio vedere come muore un italiano”. - Ma nel caso dei Marò l’Italia ha pagato?
Il caso in questione è più recente e risale al 2012. La storia è quella di due Fucilieri della Marina imbarcati sulla petroliera italiana Enrica Lexie al fine di tutelarla dal rischio della pirateria. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, il 15 febbraio 2012 vengono accusati di aver ucciso dei pescatori. I due si difesero dicendo che erano stati attaccati da armi da fuoco a bordo della loro imbarcazione. Ne scaturì un caso internazionale con l’India (il fatto era avvenuto al largo delle coste del Kerala). Usata come strumento di pressione sull’Italia, ma solo per mostrare una forza contrattuale rispetto al popolo chiamato a votare se rinnovare o meno il governo in carica nella regione, la vicenda fu oggetto anche di un arbitrato internazionale davanti al tribunale dell’Aja che dichiarò che il processo doveva avvenire in Italia. Date le tensioni però che si andavano creando l’Italia pagò una compensazione di 10 milioni di rupie (142 mila euro) per ciascuna delle due vittime.
In realtà nel caso dei marò non si trattò quindi di un riscatto e comunque non fu un importo così elevato quanto quello che si dice sia stato pagato ai terroristi che avevano rapito Silvia Romano (pare attorno ai 4 milioni di euro). E comunque mi pare che pagare per dei militari che svolgono un servizio comandato dai loro superiori e, in ultima istanza, lavorano per l’Italia sia cosa diversa da pagare per una ragazzina andata per nessuno. Qualcuno obietterà che era una benefattrice, che da cooperante lavorava coi bambini e li aiutava nello studio. La verità, però, è che la nostra giovane connazionale era una neolaureata volenterosa, e che non aveva né padronanza della lingua per intercettare eventuali minacce, né una struttura di supporto (Africa Milele è in questo periodo indagata proprio su richiesta dei genitori della cooperante italiana) e che la sua liberazione ci è costata molto più del riscatto perché come provano le foto dei quotidiani che la ritraggono vestita con un giubetto antiproiettile turco, l’Italia oltre al denaro ha dovuto pagare uno scotto internazionale che certamente il presidente Recep Tayyip Erdoğan, prima o poi farà valere (se non lo ha già fatto!).
Alla fine, quindi, bisogna porsi una sola domanda e a questa rispondere: ma se fosse stato tuo figlio?
La mia risposta è semplice: per quanto riguarda la conversione, figlio mio sei libero e fai le tue scelte. Per quanto riguarda il viaggio: figlio mio sei maggiorenne, renditi conto della responsabilità della tua scelta, poi fai quanto devi.